“Worn wear”, un’occasione ideata dal famoso brand outdoor Patagonia per riflettere sul futuro di una moda sostenibile per l’ambiente
Giovedì 4 ottobre il celebre marchio Patagonia ha portato a Milano “Worn Wear”. Dal 2013 il brand gira gli Stati Uniti e il mondo con un camper rivestito di legno e alimentato a biodiesel per riparare (gratis) i vestiti logorati o bucati.



Come afferma Rose Macario, attuale CEO di Patagonia, “con il semplice gesto di far durare più a lungo i capi che indossiamo, avendone cura e riparandoli quando necessario, si può evitare di generare emissione di CO2, la produzione di scarti e rifiuti e il consumo idrico associati ai cicli produttivi del settore tessile”. Far durare i propri capi soltanto nove mesi in più può portare a una riduzione del 20-30% della nostra impronta ambientale.
“Realizzare prodotti migliori, non provocare alcun danno che non sia necessario, usare il business per ispirare e portare avanti soluzioni alla crisi ambientale”: questo è lo slogan che campeggia sul sito e in tutti i negozi Patagonia, da sempre attivo nel campo della sostenibilità ambientale. Per capire come funziona il marchio e perché è così attivo nella difesa dell’ambiente, è necessario fare un passo indietro e raccontare com’è nato e si è sviluppato Patagonia, la cui missione si intreccia indissolubilmente con quella del suo eccentrico fondatore Yvon Chouinard.



Chouinard, più che imprenditore, si definisce scalatore, surfista, fabbro. Comincia a farsi notare quando, a 19 anni, acquista una fucina a carbone di seconda mano e inizia a realizzare chiodi da alpinismo in acciaio. La sua Chouinard Equipment ottiene un grande successo in breve tempo finché, nel 1970, non scopre che i chiodi d’acciaio danneggiano gravemente le rocce. Quindi introduce sul mercato dadi di alluminio da inserire nelle rocce per proteggerle, chiamati “Hexentrics” e “Stoppers”; quattro anni più tardi otterrà il brevetto.
Parallelamente comincia a interessarsi alla moda importando maglie da rugby per rivenderle: nasce così Patagonia, che diventa in pochi anni un brand iconico nel campo dell’abbigliamento outdoor. Ma Chouinard non dimentica la questione ambientale, ne fa al contrario il cavallo di battaglia dell’azienda: fin dalla sua fondazione, Patagonia destina l’un per cento dei ricavi ad associazioni ambientaliste locali con l’iniziativa “1% for the Planet”con cui (si legge sul sito di Patagonia) ha donato complessivamente 89 milioni di dollari.



Negli anni ’90, quando uno studio della stessa azienda rivela i danni causati dal cotone, blocca tutte le produzioni con questo materiale e inizia a utilizzare solo cotone biologico. Alcune giacche sono prodotte utilizzando solamente plastica riciclata. Dal punto di vista imprenditoriale, Chouinard è da molti considerato un pazzo. Oltre a essere decisamente fuori dagli schemi per il ruolo che ricopre (ha più volte dichiarato di disertare regolarmente il proprio ufficio per andare a surfare), ci sono esempi che testimoniano come la sua attenzione nei confronti della difesa dell’ambiente sia reale e non una carta da giocare per aumentare le vendite: nel novembre 2011, nel giorno del Black Friday, Chouinard ha comprato un’intera pagina del New York Times per mostrare l’impatto ambientale di una giacca Patagonia e tutti i costi ambientali per realizzarla, con un titolo eloquente: “Don’t buy this jacket”. Più volte in diverse interviste ha invitato i consumatori a non comprare alcuni suoi prodotti perché troppo inquinanti, e Patagonia stessa esorta i propri clienti a non buttare i propri vestiti e a cercare di ripararli o riutilizzarli (come dimostra proprio l’iniziativa Worn Wear). I numeri però gli danno ragione: Patagonia ha fatturato 209 milioni di dollari nel solo 2017 e Chouinard, secondo Forbes, ha un patrimonio stimato di 1,5 miliardi di dollari. Segno che, evidentemente, business e sostenibilità ambientale possono andare d’accordo.
Testo di Marco Caccianiga
Bibliografia:
- patagonia.com
- ilPost.it
- forbes.com
- 4actionsport.it
- wsj.com
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