Fashion Revolution nasce per fare luce sui gravi danni del mondo della moda. Inquinamento e sfruttamento dei lavoratori sono l’altra faccia della medaglia di un vestito a basso prezzo
Anche la moda è in qualche maniera sostenibile? Inquinamento ambientale e sfruttamento dei lavoratori sono l’altra faccia della medaglia di un vestito a basso prezzo. Per questo motivo nasce Fashion Revolution, per fare luce sui gravi danni del mondo della moda. E lo fa proprio durante questa settimana: dal 22 al 28 aprile si svolgerà la Fashion Revolution week, con conferenze e appuntamenti in tutta Italia, per riflettere sulla produzione dei nostri abiti.



Una moda controcorrente
Ogni giorno appena svegli si apre l’armadio e si ha sempre poca fantasia nello scegliere che vestito mettere. Sembra continuamente che non abbiamo abiti da indossare, quando poi abbiamo una casa letteralmente piena. Guardando attentamente poi si farà caso a quella maglietta comprata a pochi denari, ma poco ci importa se è stata fatta in India o in China. Ed è proprio per questo che nasce la campagna di Fashion Revolution: tra il 22 e il 28 aprile si svolge la Fashion Revolution week. Ognuno di noi può chiedere “Who made my clothes?” per potersi interrogare sulla produzione dei propri abiti.
Ma perché dobbiamo interessarci di chi produce le nostre t-shirt o pantaloni? Oggi noi possiamo avere vestiti diversi ogni settimana, perché le grandi aziende ne producono a quintali. È la legge del mercato odierno, che propone una moda accessibile a tutti, invogliando la gente allo shopping sfrenato. Quello della fast fashion, la moda pensata per durare una stagione, è un giro d’affari di oltre 3 bilioni l’anno. Senza badare all’altra faccia della medaglia: materiali di scarsa qualità, basso prezzo e poca attenzione all’ambiente e ai lavoratori.



I dati parlano chiaro: secondo l’UNECE, commissione economica delle Nazioni Unite, la moda è la seconda industria più inquinante al mondo. Seconda solo a quella del petrolio, ed è responsabile per il 20% dell’inquinamento delle acque reflue e del 10% delle emissioni di carbonio mondiali (ne avevamo parlato qui). Per non parlare di quando gettiamo i nostri capi d’abbigliamento: una volta finita la stagione finiscono in discariche, contribuendo all’accumulazione dei rifiuti.
Il lato oscuro della moda
Il settore della moda non è solo in opposizione alla sostenibilità ambientale: il 24 aprile 2013 crollò l’edificio commerciale Rana Plaza a Dacca, in Bangladesh, provocando la morte di quasi 1300 persone. L’evento è considerato il più grande incidente legato all’industria dell’abbigliamento. Successivamente, Fashion Revolution ha voluto ricordare questo grave episodio. Infatti, ogni anno si svolge proprio la settimana della moda sostenibile vicino alla data del 24 aprile. Nel 2015 esce il documentario “The True Cost”, diretto da Andrew Morgan, che mostra il lato oscuro del mondo della moda. Il grave incidente del Rana Plaza ha avuto un ruolo fondamentale nel porre maggior sicurezza nel settore della moda, ma ancora oggi sappiamo che in alcuni paesi la situazione non è cambiata. Tutt’ora sappiamo che la produzione in Bangladesh rimane critica, assieme a quella della Cina. I lavoratori in Bangladesh dell’industria tessile sono per 85 % formate da donne, che guadagnano massimo 3 dollari al giorno. Una situazione per noi impensabile ma all’ordine del giorno per questi Paesi.



Come commenta Marina Spadafora, coordinatrice di Fashion Revolution Italia: “Fashion Revolution vuole essere il primo passo per la presa di coscienza di ciò che significa acquistare un capo d’abbigliamento, verso un futuro più etico e sostenibile per l’industria della moda, nel rispetto delle persone e dell’ambiente”.
Ora sono molte le realtà, anche locali, che nel mondo scelgono di essere trasparenti e informare il cliente sui processi di produzione. Un consumatore che conosce come viene fatto un abito o un accessorio lo rende un consumatore consapevole, capace di indirizzarsi lui stesso verso una scelta sostenibile o meno.
Testo e foto di Sara Biancardi
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