Titolo: Chasing coral
Regia: Jeff Orlowski
Genere: documentario scientifico
Chasing coral è il documentario scientifico per gli appassionati di mare e di coralli. Uscito nel 2017 su Netflix ha coinvolto subacquei, fotografi e videomaker di tutto il mondo, per parlare di uno dei più grandi problemi a livello globale: lo sbiancamento delle barriere coralline. Il titolo prende spunto dal documentario Chasing ice, diretto dallo stesso regista, Jeff Orlowski, con protagonista lo scioglimento dei grandi ghiacciai.
La struttura dei coralli
I coralli sono degli organismi incredibili: sono presenti dal Paleozoico e si trovano a tutte le latitudini. In realtà non tutti sanno che si tratta di animali veri e propri, che possiedono tanti polipi. Ogni polipo ha una bocca circolare circondata da tentacoli.



All’interno dei coralli vivono delle microalghe (1 milione per centimetro quadrato), grazie alle quali avviene la fotosintesi. In questo modo si produce nutrimento, così che il corallo possa crescere. Si tratta letteralmente di una simbiosi tra le alghe unicellulari, ovvero le zooxantelle, e i coralli. Sopra lo scheletro si forma l’animale che via via si stratifica, dando origine a delle vere e proprie foreste animali sul fondo marino.
Lo sbiancamento dei coralli
Passiamo alla parte più drastica di tutto il documentario: lo sbiancamento dei coralli. Durante la stagione invernale si assiste ad un forte riscaldamento delle acque superficiali a causa del fenomeno climatico El Niño. Questo è dovuto ad una variazione della circolazione oceanica che, circa ogni 5-7 anni, porta fredde turbolenze in Sudamerica e siccità sulle coste occidentali dell’oceano Pacifico (sulla grande barriera corallina australiana).
Un’esempio tangibile lo si osserva nelle Samoa americane: l’innalzamento di due gradi centigradi nella colonna d’acqua ha provocato la morte dei coralli. Questa è una risposta allo stress: i coralli perdono le microalghe, diventano trasparenti e perdono la loro primaria fonte di cibo. Si verifica così il fenomeno dello sbiancamento, dove muore la parte viva del corallo e rimane visibile solo lo scheletro interno. Inoltre, se lo scheletro è brillante ed omogeneo il corallo è ancora vivo, ma non permette a nient’altro di crescere al di sopra. Ad un certo punto, tutta la superficie si riempie di mucillagine, quasi come se fosse pelosa: è il segno che il corallo è morto.



Dietro le quinte del documentario
Ed è proprio questo l’obiettivo del team: immortalare il momento dello sbiancamento dei coralli australiani e dare a tutti la possibilità di vederlo.
Come poter mostrare il problema e renderlo evidente? Il team del documentario è riuscito ad utilizzare delle videocamere poste sottovuoto, collegate tramite un tablet che forniscono in tempo reale i dati trasmessi. L’idea è stata quella di registrare tanti video e poi velocizzarli, come avviene per un time lapse. La videocamera è inoltre dotata di un braccio magnetico che fa da tergicristalli per poter lavare continuamente il vetro della camera.



Lo sbiancamento del 2016 non è stato l’unico evento drastico: situazioni del genere si sono sviluppate nel 1997 e nel 1998, a livello globale, e nel 2010. Ora grazie ad internet e alla condivisione è possibile osservare in tempo reale la situazione dei coralli. Sul sito di Chasing coral è possibile condividere la propria esperienza subacquea per aiutare al monitoraggio globale delle barriere coralline. Ma adesso non vi sveliamo altro: correte a vedere il documentario!
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