Storia e conseguenze dell’inquinamento causato dalle materie plastiche sulla fauna marina e non solo: un futuro che si può ancora cambiare
Finalmente è arrivato il pacco che avevo ordinato qualche settimana fa. Al suo interno: il computer con cui sto scrivendo questo articolo, sacchetti e sacchettini di plastica che contenevano le parti dell’oggetto elettronico, polistirolo, polistirolo, polistirolo e ancora polistirolo. Il prodotto acquistato è arrivato intatto e funzionante, come si può notare, ma ora cosa accadrà a tutta questa plastica?
Ho sentito dire che se non è smaltita nel modo corretto può causare danni agli animali e può anche avere effetti negati sulle piante. Insomma, può essere un pericolo per molti ecosistemi, dal lago al mare. Sì, perché l’ambiente, il pianeta Terra, è un sistema in relazione e in connessione con le varie componenti che lo costituiscono.
Prima di arrivare a giudizi affrettati sulla plastica, anzi, “plastiche”, dal momento che ce ne sono di più tipi, è bene fare il punto della situazione, capire da dove nasce, le ripercussioni che ha sull’ambiente naturale se è usata o smaltita in modo improprio e comprendere perché diversi Paesi, come quelli dell’Unione Europea, stanno prendendo provvedimenti per ridurre l’inquinamento causato dalle plastiche.
La plastica: da soluzione a problema per la fauna
Partiamo dal materiale in questione: la plastica. Lo studio e le prime ideazioni risalgono alla seconda metà dell’Ottocento, ma la produzione vera e propria è decollata negli anni ’50 del Novecento. Una delle spinte decisive per il suo sviluppo lo ha dato un italiano, Giulio Natta, che produsse il propilene isotattico (commercializzato con il nome di “Moplan”). Nel 1963, Natta e Ziegler ottengono il premio Nobel per la chimica per gli studi sui polimeri. Da allora ne è passato di tempo e di materie plastiche ne sono state prodotte molte, utili per le loro qualità: leggere, resistenti, utilizzabili in migliaia di prodotti e poco costose. Ma con un problema emerso nel corso degli anni.
Circa i tre quarti degli 8,3 miliardi di tonnellate di materie plastiche prodotte sono rifiuti (circa 6,3 miliardi di tonnellate), il 90% dei quali non sono riciclati. Le conseguenze di una scorretta gestione di questi materiali è davanti agli occhi di tutti e basta partecipare ad una delle tante giornate ecologiche di pulizia – dalle spiagge alle sponde dei fiumi e alle rive dei laghi – per accorgersi che è necessario intervenire.
Mari, fiumi e laghi
Ma quale è la quantità di questi rifiuti che arriva al mare? Al momento i dati non sono certi, ma Jenna Jambeck (docente di ingegneria all’University of Georgia) nel 2015 ha stimato che possano essere tra i 4,8 e i 12,7 milioni di tonnellate. Tra queste, un’elevata percentuale (40%) è composta da oggetti monouso. Sempre secondo Jambeck, la maggior parte dei rifiuti che finiscono in mare non arrivano dalle navi ma bensì dalla terraferma e dai fiumi, attraverso il vento e la corrente.
Nello specifico, i corsi d’acqua sono i principali vettori della plastica ritrovata in mare. Ad esempio, l’Indo scarica tra 1 e 13 migliaia di tonnellate di rifiuti, così come l’Irrawaddy, l’Orinoco, l’Amur, il fiume Giallo e il Reno. Invece, il Mekong riversa tra 14 e 28 migliaia di tonnellate di rifiuti e il Gange, il Niger e l’Amazzoni ne portano oltre 29 migliaia di tonnellate.
A questa plastica si aggiunge quella della terraferma, per la quale si parla principalmente di rifiuti municipali non smaltiti nel modo corretto. A tal proposito i dati vanno da meno di 9 tonnellate a più di 9.072 tonnellate, con i picchi maggiori in Asia, Africa e Medio Oriente. Tuttavia, sono presenti livelli elevati anche in U.S.A., Europa e lungo le coste dell’America del Sud e del Centro. Invece, Canada, l’area della Siberia e l’Australia raggiungono livelli quasi nulli.



plastiche nel mar Ligure. / @Sara Biancardi
Oggetti curiosi per gli animali
L’ecologo marino Richard Thompson, proprio durante un’iniziativa di pulizia sulle spiagge dell’Isola di Man nel 1993 notò la presenza di minuscoli pezzi di un materiale che sembrava plastica. Ne raccolse alcuni campioni che fece analizzare. Il verdetto: era effettivamente plastica. Per l’epoca era incredibile ed iniziavano ad esserci gli indizi per trovare la soluzione al mistero di come mai in ambiente se ne trovasse una quantità inferiore rispetto alle tonnellate prodotte.
Nel 2004 Thompson conia il termine “microplastiche” con il quale sono individuati quei frammenti di plastica che si sono disgregati dal corpo principale. Sì, perché la plastica si può rompere in pezzi più piccoli e questi in pezzettini ancora più piccoli (le “nanoplastiche”). Gli agenti, coloro che causano questa divisione, sono principalmente la luce solare, il moto delle onde ed altre azioni miste, anche di natura animale, come nel caso della specie Orchestia gammarellus (una sorta di gamberetto) che prova a divorare la plastica.
Non solo. Thompson ha trovato microplastiche anche nell’intestino dei pesci. Verosimilmente tali frammenti possono causare la morte dell’ittiofauna, degli “abitanti dei mari e delle acque”, dal momento che non forniscono il nutrimento di cui ha bisogno l’animale ma lo appesantiscono provocando danni interni e sottraendo energia e tempo al vero foraggiamento.
Purtroppo ci sono numerose testimonianze dell’impatto negativo sulla fauna selvatica. Ci sono video su You Tube di persone che estraggono cannucce dalle narici di una tartaruga marina; un albatro ripieno di plastica; un’altra tartaruga incastrata in un anello di plastica delle confezioni delle lattine; iene alla ricerca di cibo in una discarica; un paguro che ha trovato riparo in un tappo… Di esempi ce ne sono, ma uno in particolare colpisce per la sua portata.
Secondo gli studiosi, le berte piedicarnicini – dei grandi uccelli marini – ingoiano più plastica di qualsiasi altro organismo vivente in proporzione alla propria massa corporea. Un frammento di plastica è in grado di perforare l’intestino di questi animali, anche se la conseguenza più ricorrente è quella già citata di una fame insaziabile. Anche le acciughe scambiano i piccoli pezzi di plastica per cibo, dal momento che questi hanno un odore familiare quando sono ricoperti dalle alghe. Questi pesci, presenti anche nel Mar Mediterraneo, sono stati studiati anche da Mario Petrillo (Università di Genova). Il ricercatore ha riscontrato che un’acciuga su tre contiene nello stomaco frammenti di plastica visibili a occhio nudo, confermando che gli animali possono scambiarli per plancton.
Secondo il biologo marino Matthew Savoca, circa 700 specie di animali marini si sono nutriti di plastica o ne sono rimasti intrappolati. Un esperimento ha dimostrato che le ostriche esposte a minuscoli frammenti di polistirene producono meno uova mentre le microplastiche ingerite dal crostaceo Daphnia magna ne ostruiscono l’intestino.
Non è ancora stato confermato che le microplastiche possano passare dall’intestino degli animali alla carne, e quindi all’uomo nel caso in cui se ne cibasse. Invece, preoccupano gli agenti chimici aggiunti alla plastica per darle le sue proprietà, poiché possono passare ai tessuti dei pesci. Un’attenzione particolare è rivolta anche alle nanoplastiche, perché, anche se non sono state rilevate in dispersione nell’ambiente (gli strumenti non riescono ad individuarle), hanno tutte le caratteristiche per essere sequestrate dai tessuti degli animali, uomo compreso.
Infine, anche le piante marine possono risentire degli effetti negativi dell’inquinamento provocato dalla plastica. Ad esempio, se i grovigli di rifiuti plastici si inseriscono sul piano intertidale (dove battono le onde), si può formare il “plasticrust”, ovvero lo strato di plastica incrostato sulle rocce che rimpiazza lo strato di alghe. La sostituzione comporta dei problemi ecologici a cascata, cioè che ricadono anche sulle altre specie legate a questo habitat. Ad esempio, sembra che la lumaca marina Littorina littorea stia iniziando a cibarsi dei composti plastici anziché delle alghe.
Ma il gasteropode non è l’unico abitante degli scogli che ha cambiato le sue abitudini alimentari: ad esso si aggiunge anche il granchio corridore (Pachygrapus marmoratus) ed altre specie potrebbero seguire. Il termine “plasticrust” è stato coniato da un team di ricercatori portoghesi coordinati da Ignacio Gestoso che hanno pubblicato i risultati sulla rivista Science of The Total Environment (2019). Lo studio effettuato a Madeira ha rivelato che circa il 10% della superficie rocciosa è ricoperta dalla plastica (sono seguiti studi anche nel Regno Unito e all’Isola del Giglio). Inoltre, nel mar Tirreno è stata notata la presenza del così detto “pyroplastic”, una sorta di plastica derivata dai rifiuti bruciati e inglobato anch’esso sulla superficie rocciosa.



le popolazioni che abitano il piano intertidale potrebbero essere sostituiti dal plasticrust.
Non solo aspetti negativi
Le materie plastiche non vanno demonizzate per forza in quanto tali, ma sarebbe necessario riequilibrare la loro produzione, consumo e corretto smaltimento, oltre ad incentivare il riciclo. Infatti, questi materiali sono stati portatori di innovazioni e, in alcuni casi, hanno portato indirettamente dei benefici agli animali. Ne è un esempio la produzione della bachelite ad opera di Leo Hendrik Baekeland che ha sostituito l’utilizzo dell’avorio per la realizzazione delle palle da biliardo, salvando così gli elefanti.
Ma ci sono anche altri aspetti positivi: ha reso possibili i viaggi spaziali; ha rivoluzionato alcuni campi della medicina; ha reso più leggere le automobili e gli aeroplani (con conseguente meno consumo di carburante ed inquinamento ambientale); le pellicole permettono di conservare più a lungo gli alimenti; sono realizzate le tante bottiglie che permettono ad alcune popolazioni in via di sviluppo di avere acqua potabile.
Insomma, di per sé il materiale ha sia aspetti negativi che positivi. Quindi cosa possiamo fare per ridurre i primi e massimizzare i secondi?
Piccole azioni per un futuro più sostenibile
I gesti che ciascuno di noi può compiere nel quotidiano sono la base per raggiungere l’obiettivo di un domani più rispettoso dell’ambiente e delle persone. Innanzitutto, è consigliato evitare l’utilizzo dei sacchetti di plastica a favore di quelli riutilizzabili in stoffa o in altri materiali. Allo stesso modo, è possibile limitare l’utilizzo delle cannucce e delle bottiglie di plastica, le quali possono essere sostituite da quelle in vetro o dalle borracce.
Inoltre, si possono prediligere i prodotti sfusi, in modo da ridurre la quantità di imballaggi di plastica e, contemporaneamente, si può riciclare il più possibile, non abbandonare rifiuti e incentivare politiche condivise a livello internazionale più attente alla sostenibilità ambientale, come nel caso della messa al bando di alcuni prodotti di plastica monouso in Unione Europea. Le nostre azioni hanno un impatto sulla Terra e sul suo ambiente naturale, dal momento che ne facciamo parte. Ora è compito nostro con le dovute conoscenze e una corretta informazione rendere possibile un futuro migliore per noi e per le generazioni che verranno.
Bibliografia:
- “Mario, il biologo dell’Università di Genova che svela i segreti delle acciughe” (Bruno Viviani), 14 luglio 2018;
- Marine Bulletin, “First record of “Plasticrusts” and “pyroplastic” from the European Mediterranean Sea” (Sonja M. Ehlers, Julius A. Ellrich);
- Science of The Total Environment, “Plasticrusts: A new potential threat in the Anthropocene’s rocky shores” (Ignacio Gestoso, Eva Cacabelos, Patricio Ramalhosa, Joao Canning-Clode);
- National Geographic Italia (giugno 2018), “Plastica” (Laura Parker); “Il costo in natura” (Natasha Daly);
- theoceancleanup.com;
Testo di Emmanuele Occhipinti
Fotografie di Sara Biancardi
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