Dall’utilizzo delle microalghe alla Blue Economy: una panoramica delle nuove ricerche e progetti sugli allevamenti di acquacoltura.
«Nel 2050 ci sarà più plastica che pesci nell’oceano». È questa una delle frasi più ricorrenti che fa preoccupare tutti, inclusa la comunità scientifica. Non solo per l’evidente aumento di plastica nei nostri mari, ma anche per la scarsità di pesce. In questo articolo, vedremo insieme come le innovazioni nel campo dell’acquacoltura potrebbero rivelarsi una soluzione. Nel particolare, sottolineeremo l’importanza della ricerca di soluzioni nella produzione mondiale di pesce e del suo impatto sulla nostra vita.
Una panoramica sull’acquacoltura
Con acquacoltura si intende l’allevamento di organismi acquatici in ambienti confinati e controllati. È differente dalla pesca, attività in cui l’uomo preleva le risorse dagli ambienti naturali. Nel 2017, il Mediterraneo e il Mar Nero hanno raggiunto la più alta percentuale di pescato: il 62,5%. La conseguenza è un sovrasfruttamento delle specie ittiche più conosciute. Tonno, pesce spada, sgombro e merluzzo rischiano di scarseggiare nei nostri mari.
Secondo il report della FAO “The State of World Fisheries and Aquaculture 2020”, il settore ittico ha raggiunto una produzione mondiale di circa 179 milioni di tonnellate nel 2018, 82 milioni di tonnellate provenienti dall’acquacoltura. L’allevamento ittico non è destinato solo al consumo umano: tra le specie più allevate troviamo le carpe koi, o carpe giapponesi, diffuse per il loro valore ornamentale. Le specie allevate in acquacoltura sono state le seguenti:
- pesci d’acqua (47 milioni di tonnellate);
- pesci d’acqua dolce (7,3 milioni di tonnellate);
- molluschi bivalvi (17,7 milioni di tonnellate);
- crostacei (9,4 milioni di tonnellate);
- invertebrati (435.400 tonnellate);
- tartarughe acquatiche (370.000 tonnellate);
- rane (131.300 tonnellate).


Le microalghe: organismi versatili
In Italia sono presenti molti allevamenti di acquacoltura, per la maggior parte intensivi e monocolture. Esistono poi gli allevamenti definiti integrati, sviluppati su policolture. Grazie alle ricerche si sono sviluppate delle tecnologie in grado di smaltire i prodotti di scarto (come azoto e fosforo) per evitare che finiscano nell’ambiente e portino all’eutrofizzazione. Tra gli studi più importanti sul campo abbiamo quello della dott.ssa Silvia Buono dell’Università degli Studi di Napoli, effettuato su un impianto a circuito chiuso, dove i fluidi utilizzati non possono fuoriuscire in ambiente. La ricerca dimostra come, mediante un depuratore, sia possibile recuperare le acque reflue provenienti dalle vasche di allevamento e riutilizzarle per la crescita di microalghe. Detto in parole povere, si utilizzano i rifiuti per creare una risorsa. Come diceva il noto cantante genovese: “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior“, o le alghe in questo caso!
La ricerca nel dettaglio
Per lo studio sono impiegate le specie vegetali Tetraselmis suecica e Isochrysis galbana. La loro capacità di produrre sostanze organiche le rende nutrimento ideale per gli organismi, in questa ricerca per i mitili (Mytilus galloprovincialis), in vasche separate da spigole (Dicentrarchus labrax) e orate (Sparus aurata). Le microalghe sono poste sui biodischi, una serie di dischi rotanti. Attraverso tale applicazione è possibile recuperare totalmente i reflui provenienti dalle vasche di allevamento, senza alcuno spreco.
Dopo un opportuno trattamento, si riutilizzano le acque reflue come terreno di coltura per la crescita di microalghe. Le analisi chimiche del refluo, prima e dopo il trattamento biologico, hanno evidenziato l’abbattimento di sostanze come ammoniaca (68,35%) e nitriti (70,87%). Inoltre, durante l’anno di monitoraggio, si è registrato una percentuale di abbattimento del BOD (la concentrazione di materia organica biodegradabile) del 91,12%. Infine, i valori in uscita dell’impianto risultano inferiori ai 40 ppm, come impone il limite legislativo per gli scarichi nei corpi idrici. Tali valori sottolineano il buon funzionamento delle microalghe sui biodischi rotanti.
La Blue Economy è il modello da seguire
Lo sviluppo dell’acquacoltura può avvenire solo attraverso l’impiego della Blue Economy, modello economico che concentra le attività produttive sul benessere degli ecosistemi marini. Infatti, è «in grado di portare sul mercato prodotti e servizi competitivi che rispondano ai bisogni primari, costruendo nel contempo capitale sociale e migliorando la vita consapevole in armonia con il percorso evolutivo della natura» (Gunter Pauli, Blue Economy). Tale modello è stato proposto da Gunter Pauli nel libro The Blue Economy: 10 years, 100 Innovations. 100 Million Jobs. È l’unica soluzione possibile per ridurre l’impatto dell’uomo sulla Terra e per cercare di arginare i danni ambientali. Grazie a quest’ottica, il Parlamento Europeo ha adottato il fondo per la pesca sostenibile 2021-2027, con i seguenti obiettivi:
- sviluppare l’economia blu;
- proteggere la biodiversità;
- promuovere la governance internazionale degli oceani.
Il fondo prevede 6,1 miliardi di euro e prende il nome di Fondo Europeo per gli Affari Marittimi, la Pesca e l’Acquacoltura (Feampa). Come previsto dal fondo, i Paesi europei dovranno dedicare il 15% degli stanziamenti nazionali in azioni sul controllo della pesca, cercando di contrastare la pesca illegale e non regolamentata. Sarà una grande sfida: non a caso le Nazioni Unite hanno definito gli anni 2021-2030 come «Decennio delle Scienze Oceaniche per lo Sviluppo Sostenibile».
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