Il Politecnico di Torino mette a punto Water to food. Con un click è possibile scoprire quanto consumo di acqua c’è in ogni alimento esportato e importato nel mondo.
Sapevi che dietro un chilo di pomodori italiani ci sono 80 litri d’acqua? E che per produrre un chilo di tabacco in Brasile ci vogliono 2.000 litri d’acqua? Water to food ha tutte le risposte! Il sito raduna i risultati del progetto CWASI (Coping with water scarcity in a globalized world), il database sul consumo delle risorse idriche. Water to food è nato da un team di ricercatrici del Politecnico di Torino, guidate da Francesco Laio, docente presso il Dipartimento di Ingegneria per l’ambiente, il territorio e le infrastrutture.
Prendersi cura delle risorse idriche nel sistema alimentare globale è il faro guida di una ricerca che guarda al nostro bene più prezioso, l’acqua. Il consumo di acqua per la produzione alimentare equivale a circa il 70% del prelievo totale di acqua dolce per usi umani. Non è poco. Ecco perché capire come si distribuisce una tale quantità di acqua diviene fondamentale.
Il valore dell’impronta idrica e del consumo di acqua
Il sito nella sezione Play with data mette a disposizione i dati relativi al valore dell’impronta idrica. Questo si riferisce al consumo di acqua per un determinato alimento in termini di produzione e, di conseguenza, di consumo. L’indicatore Water Footprint (WF) è applicato su scala mondiale per diversi alimenti, così da individuare a colpo d’occhio sulla mappa le differenze tra i diversi paesi di produzione. Scopriamo che, tra i massimi produttori di grano, gli Stati Uniti consumano 95 miliardi m3/ton di acqua per la coltivazione del grano, la Russia 113 miliardi e l’India 145 miliardi.
Riducendo la scala, scopriamo che per avere un kilo di banane sono necessari 341 litri di acqua in Italia, ma in Brasile ce ne vogliono 789. Le disparità in altri casi aumentano. Per esempio, un chilo di mele in Iraq comporta un consumo di 20 mila litri di acqua, mentre in Italia solo 170 litri e le ricerche potrebbero continuare all’infinito. Ma non è tutto qui. C’è un altro parametro da considerare ed è l’apporto del commercio di acqua virtuale.
Cos’è il commercio di acqua virtuale?
Per acqua virtuale s’intende il quantitativo di acqua che viene virtualmente spostata dall’area di produzione al luogo di importazione. Quindi spesso il consumo di acqua è destinato ad altri Paesi. Se l’Etiopia consuma undici mila litri d’acqua per 1kg di caffè, è l’Italia a importare chicchi di caffè etiope per un corrispettivo totale di 95 milioni di litri di acqua.
Ecco che la panoramica si estende. In questo modo, si vede il consumo di acqua di un Paese in relazione agli alimenti esportati e importati. È vero sì che importare risorse da altri Paesi è vitale per la propria autosufficienza, tuttavia è altrettanto vitale soffermarsi su quanto consumo di acqua si cela dietro ogni importazione.
Il concetto di vulnerabilità nel sistema idrico globale
Il progetto Water to food oltre a fornire dati mira a istruire la società così che ognuno nel proprio piccolo possa acquistare consapevolmente. Infatti, sono i nostri acquisti a innescare i movimenti del mercato e di conseguenza le direzioni del commercio di acqua virtuale, contribuendo alla vulnerabilità di alcuni Paesi, piuttosto che di altri. Le aree con un numero di risorse ridotte sono le più esposte alle crisi esterne, dovendo fare affidamento ad altri Paesi per l’approvvigionamento.
Per esempio, il Brasile non produce grano e l’impronta idrica di produzione è bassa. Tuttavia, ne consuma e ne dipende quasi totalmente dagli Stati Uniti, dai quali riceve un equivalente di grano pari a 1 miliardo di metri cubi di acqua. Tutti i Paesi sono a rischio e mostrano, anche quelli meno meno a rischio, un certo grado di vulnerabilità. Una dimostrazione è data dalla crisi del gas di questi ultimi mesi. E se pensiamo che dietro ogni cibo che mangiamo c’è acqua, lo studio promosso da Water to food è da tenere in alta considerazione. Con l’acqua non si scherza. Senza, ancor meno.
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